L'uno e l'altro della rossigna terra romagnola, «sacra ad una stirpe, che, nel silenzio matura epici eventi alla terza Italia», l'uno e l'altro di una mesta e profonda malinconia, forse troppo critici e speculativi delle angoscie personali, di necessità vengono a sorridersi ed a stringersi le mani, in imagine, dopo dieci anni d'obblío per il mondo; da che, vivente, il Donati dà, al suicida poeta trentaduenne, pace e fama oltre tomba e placa le ombre sanguinose ed irritate di quel giovane troppo presto stanco delle sofferenze e della speranza per scomparire nella morte.
Fatidica terra racchiusa dalli Apennini bolognesi alle sponde adriatiche! Produce, nell'aspettazione, anime verginali impotenti alli sconforti della vita, troppo alacremente indomite per sottoporre il sogno caro e la imagine di felicità al mordente disgregatore delle necessarie platealità. Da Leopardi all'ultimo Pascoli, è tutta una tenera elegia personale che dilaga, casta e selvaggia a volte, è tutta una tristezza incommensurata; o sia che il weltschmerz metafisico si lamenti nella canzone del Passero solitario e nella Ginestra, o sia che nelle Miricae, l'anima si comporti alle squisite fragilità ed alle adorate inezie delle cose familiari, contemplandole con senso secreto di rassegnazione, con una lagrima presta sul cilio, con un singhiozzo male raffrenato in gola.
Giacinto Signorini è tra questi: nutrito alla scuola di Carducci, maestro nell'ateneo di Bologna, ha la plasticità del suo verbo, ma non la potenza sana e completamente forte del suo pensiero: segue il Leopardi modernizzandosi, non come lui triste per riflesso della universale tristezza, non come lui ideale nihilista per l'inanità dello sforzo umano contro l'ineluttabile universo; egli è triste perché riporta la sua personale angoscia sopra quanto lo circonda e fa lagrimare la natura quand'egli piange; egli è nihilista, in parte, perché sente dentro di sé l'inutilità del suo volere, sempre vinto dall'impassibile destino a cui non crede di dover ribellarsi.
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