Teofilo, vescovo, condurrà le turbe pazze del verbo iconoclasta (Paolo barbaro aveva seminato per Corinto ed Atene) all'incendio del Serapeum; la biblioteca, opima dei duecentomila volumi di Pergamo, prenderà fiamma ed appresterà della scienza e della poesia alimento alla distruzione: ipocriti, domani, i fedeli daranno l'onta di questo sacrilegio ad Amru, luogotenente del califfo Omar quando, 250 anni dopo, terminava la soppressione e l'incenerimento dei papiri. Il Gran Pan morto, come aveva gridato la voce udita da Thamos pilota sull'Egeo torbido e minaccioso, i tempi nuovi approssimavano.
L'Ellade agonizzata, la Romanità decadente, erano dentro operate da un lievito aspro di rinuncia e di violenza: Cristo, uscito dall'Asia, portava il monoteismo per quelli infelici che si credono immortali, come irrideva Luciano: la grande notte si addensa, per quanto in una chiarezza di genio ribelle e conservatore Giuliano tenti la conciliazione neo-platonica, tra la rivelazione dei vangeli, li eoni di Manete, la magica di Simone, ed il dogma di Basilio. La coscienza vagellava. L'aristocratico sorrideva e lasciava passare il cencioso, a cui il paganesimo dava per semplice religione il purificarsi, mentre riservava al filosofo il comprendere: Agostino, manicheista di recente convertito, pirateggiava Platone e Socrate e Seneca, felicemente viaggiando alla santità.
Un anonimo di quel tempo aveva inscritto in un dialogo: «Noi siamo troppo ricchi e troppo vecchi. Dove è il bene? Dov'è il male? Voi lo sapete?
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