Gustave Kahn ci aveva abituati ad altre rappresentazioni. Per un racconto mitico e lirico, evocatore della regina di Saba, del re mago Balthazar e di Giuseppe d'Erimantea, per un impero teutonico, tra il Reno e la Mosa, nel secolo XIV, gotico e biblico insieme, ci aveva composto le leggende del Conte de l'Or et du Silence. In una specie di romanzo politico, prevedendo l'avvenire, ipotesi letteraria di una trasformazione violenta e sociale, Le Roi Fou, annotava le necessità ereditarie della pazzia atavica, in una famiglia di re, ed ancora, in una ipotetica Germania, si succedevano le ore tragiche e tragicomiche di una rivoluzione sociale e contemporanea.
Poeta, a nessuno scolaro nella scienza del ritmo e della rima, fragrante di personalità, lucido di indipendenza fu, tra i primi, dopo il Rimbaud ed il Laforgue, che accolse il verso libero e lo promosse vittorioso, dalle pagine della minuscola «Vogue», una rivista del 1886, ai suoi poemi che attualmente riempiono i volumi nitidi delle edizioni del Perrin e del Mercure de France: Domaine de Fée: La Pluie et le Beau Temps: Limbes de Lumière: Le Livret d'Images.
Imagini orientali; cantici ad una sola voce dolce ed amorosa in un apparecchio fittizio alla Verlaine; toni semplici e delicati; rutili magnificenze d'oro e di stoffe preziose; originali sentimenti nell'accogliere e nel rendere le cose comuni passanti; finezza di fiammingo quasi meticolosa ed improvvisazioni entusiaste, male frenate dalla diga prosodica, dilaganti; limpidi rivi tra le praterie, sinuando, di Olanda, e torrenti schiumosi ed irridiati per le cascate scheggiate dell'Alpi: questa la poesia di Gustave Kahn.
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