Ma Ottone di Banzole, ora mai decisamente Alfredo Oriani, era ambizioso.
Si aggrappò alla politica corrente e questa gli fece vedere, che per arrivare, doveva lasciar da parte la repubblica, o almeno adombrarla di un velo molto spesso e nero, di gramaglie.
Venne a far lo storiografo, vagellando con La lotta politica in Italia, saggio che accetta partecipazione di principe con libertà di popolo, regno con imperio popolare, intiepidendosi nella democrazia costituzionale.
Poi, diresse le sue armi contro il divorzio ed ammise, vecchia superstizione, la giustizia del tue-la barbara, a difesa del minacciato adulterio: quindi divenne consigliere provinciale del Ravennate, ed ora badalucca forse per la deputazione. Fra tanto, tra un drama ed un articolo di giornale, canta Giobbe nostro, non il cavallo, figlio del deserto, ma un suo surrogato, la Bicicletta machina e gingillo d'acciaio rispecchiante al sole delle strade e polverose, rapide ruote correnti, ministre, all'umanità, nei viaggi e nello sport delle relazioni internazionali; iperbole curiosa, ma non esagerata davanti allo sviluppo del ciclismo.
E però, lo scrittore solitario di Casola Valsenio, per un susseguente raffreddamento di temperatura cerebrale va facendosi piú tiepido e meno generoso. Già smussa le punte aspre del suo stile; la prosa gli si rende piú calma, ma meno viva; le imagini sono lasciate da parte; le esagerazioni scansate; i colori smunti, ricerca piú tosto i luoghi comuni accetti da tutti e rifiutati dai pochissimi delicati; Alfredo Oriani si ricrede in letteratura, dei molti vizii che formavano una sua virtú, ed in politica, di quelle cosí dette utopie, che erano una libera attitudine del suo pensiero.
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