Ed, attendendo a sognare di fuochi accesi, per vendetta, nel Ravennate, ad incendio dei fienili di chi osta alle Leghe (come l'altro giorno, il nostro Alberto Babini, da queste stesse colonne, ci avvisava) anche ascolta lietamente le lodi ed odora l'incenso della critica per bene, turibolato senza economia e per La Bicicletta e per l'Olocausto, l'uno e l'altro volume recentissimi.
Non io mi farò, diacono, in questa cerimonia di elogi; troppo mi hanno irritate le lente ma progressive disillusioni sopportate in causa della involuzione del romanziere; perché, considerato in sulle prime in quella virtú d'eccezione, a poco a poco, lo accorsi discendere, impelagandosi nella mediocrità produttiva e professionale, dando sempre meno di quanto poteva rendere per meglio farsi accettare. Prova di decadenza reale, o di pratico riconoscimento commerciale?
Tale l'Olocausto, una novella, che svolge un fatto di cronaca, inscritto sotto la rubrica «Corruzione di minorenni», una novella che si gonfia, fuor di proposito, in romanzo. L'autore, senza sdegno, senza partecipare, rivoltola a piene mani la lordura del ruffianesimo domestico e del sacrificio della carne per il soldo; non ha gridi di sdegno, non ha né meno dilettazione sadica; non approva, non condanna; è freddo, racconta. Tilde è la creatura dell'Olocausto; una magra vergine aggraziata, una primavera umana tarda e compressa; muore dopo la deflorazione e di peritonite. Allevata nel vizio e nella miseria, ha una ingenua onestà di rifiuto; tra la madre che vende, ex cortigiana invalida, ed una vicina di casa, parassita di lupanari, si spegne con una smorfia di terrore e di sdegno, per la verginità sanguinosa, lacerata e mercata.
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