Facciamole adunque passare insieme.
Vengono le missive da Francia a Cesare Cantú. Ora, quando le chiacchiere che vanno a torno e che possono qualche volta dir troppo, si debbano credere (il Melibeo ve lo chiede in dubbio, sull'accettarle) l'amico poligrafo, che le riceveva, era tal uomo da assaporarne le indiscrezioni, le ingiurie, le malignità e la mancanza di cuore e di gratitudine. Perché, si andava sussurrando sotto voce che, in allora, il Cantú uscito, dopo l'arresto di Brivio ed i mesi di carcere in Milano, si valeva verso i patrioti del suo breve martirio non senza però sperare dal governo austriaco oblío se non impieghi: intanto praticava la chiesa.
Cosí, La Descrizione del Gran Serraglio mostruoso in Milano, una satira caustica e fine non balbettava nel mostrarcelo:
Qui il beffeggiato saccentel di Brivio
Che tenta ogn'arte per uscir dal Trivio;
E al Dio di Bruto apostatando in muda,
Col Bossuetto, facchinando or suda;
Mentre Ignazio Cantú suo fratel degnoRaglia verso di lui: «Venga il tuo regno».
Il dalmata non può soffrire d'Azeglio. Con astio, ch'io non comprendo, gli imputa il secondo matrimonio (mortagli la prima moglie, Giulia, figlia di Manzoni), come una mancanza di affettività ed una prova d'egoismo. - Non può digerirsi in pace la corona marchionale dell'autore del Nicolò de' Lapi, e a questa sua nobiltà dà il merito del successo parigino di cui, in quel tempo, era gratificato insinuando:
«Parigi 1836. L'Azeglio so che è in viaggio. Qui, verrà accolto bene come bell'uomo e marchese e pittore (non crediate che il titolo di marchese non valga a Parigi) per la qualità dell'animo non ci si bada piú che tanto, e una camicia pulita copre ogni cosa».
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