Né s'acqueta per ciò; e, legandolo insieme a Balzac che il d'Azeglio, durante il soggiorno di quello a Milano aveva presentato al Manzoni, con acrimonia si duole:
«Parigi 7 aprile 1839. Che il Balzac sia accarezzato costà me ne duole piú che di una nuova invasione di Barbari. Son queste, mio caro, le nostre piaghe, e di queste vivono i bachi che voi sapete. L'Azeglio non lo doveva presentare al Manzoni; ma l'Azeglio è un po' su quel gusto. Ed a me disse spropositi degni di nobile piemontese».
Tutto questo è eccessivo; né a Massimo d'Azeglio vanno le mie tenerezze molte o poche ma tanto egli valeva quanto il lessicografo sia pur repubblicano; e la sua cavalleria di moschettiere generoso e fedelissimo e qualche sua pagina descrittiva, ed in fine il grande suo disinteresse di conservatore savoino ce lo possono rendere caro, meglio dell'altro, che, chiuso e livido, manda frecciate di nascosto e colla reticenza compromette e fa dubitare.
Quindi turba il sonno di morte ed il riposo del Foscolo, il piú grande ed il piú completo dei poeti moderni; e bollandolo di un'ingiusta sentenza velenosa lo caccia tra i pessimi del suo tempo:
«Parigi, 7 ottobre 1835. Tibaldo pensa alla vita del Foscolo: e lo ammira troppo: onde disseppellirà il suo cadavere come se fosse vivo: e n'uscirà odore non buono».
«Parigi, 28 novembre 1836. Quanto al Foscolo, raccomandai al Tibaldo mescesse contraveleni in prefazioni ed in note. Ma lo efficacissimo de' contraveleni è l'esempio di quella vita arida per calore abusato e di quella fredda e vilissima fine».
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