Ma il tempo, che si tramuta in ispazio, non so per quale metamorfosi impacciante sulle colonne di un giornale politico e battagliero, mi corse assai presto nell'ottima compagnia. Altri poeti mi sollecitano da vicino e mi domandano qualche benignità, di cui non sarò avaro la prossima volta, per accontentarli tutti.
[In «L'Italia del Popolo», a. XIII, n. 1364, 16-17 ottobre 1904 e a. XIII, n. 1387, 8-9 novembre 1904.]SIMBOLO ED ALLEGORIA
Nel 1890, la giovane letteratura in Italia contava, già qualche diritto: desiderava, se le fosse stato possibile, imporre un suo modo: credeva essere venuto il momento di sostituire le proprie personalità fresche alle altre troppo conosciute; sperava di poter dotare l'epoca di quello stile di cui mancava. In questo aveva innestato li elementi essenziali e li attributi dell'attualità, la permanente ragion naturale e le variazioni de' tempi, virtú certo reali: ma, certo, l'amalgama affrettata e mal fusa presentava molte scorie ed elideva molte proprietà necessarie, donde esuberanze e mancanze; un affidarsi, oggi, al ragionamento, domani, al senso, un vagellare: per di piú, l'ostilità ringhiosa, che accoglieva ogni nostro tentativo, cercava di scoraggiarci in sul principio: ed invano. - Sentimmo dei musi freddi venire ad annusarci dietro la schiena, per sapere veramente chi mai potevamo essere. Uno, dopo aver aspirato per le froge, abbondantemente, pensava: «Non è cosa che si mangia». - L'altro: «Né che si beve». - In coro: «Facciamoli fuggire coll'urlare e col ringhiare». I piú calmi, i piú metodici, quelli che avevano conservato abito umano e cortesia, dopo molto pensare e pesare e lambiccare, avevano sentenziato: «Stile sopra carico, conseguenza di povertà organizzatrice, accompagnata da una estrema prodigalità nei mezzi e nella intenzione.
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