Egli ha pur lottato con se stesso ed ha deciso con una sua filosofia per il mistero; poiché la realtà non seppe compiacerlo, perché forse nulla è piú vero del Sogno... e della Morte che lo annulla.
[In «La Ragione», 27 ottobre 1909.]GEROLAMO ROVETTA
Doloroso riporto, in sullo scadenzario non inutile, ma crudele della morte, un'altra domanda, l'ultima sua postilla, richiede la banalità, che contrasta col mio affetto ferito, di un necrologio sopra la pagina nominata da Gerolamo Rovetta.
Non importa che per quasi dieci anni, quest'ultimi, non mi fu dato di vederlo e di parlargli a viva voce; ma mi giungevano dell'amico le recenti pubblicazioni coll'eco delle cronache teatrali, la nota bibliografica, coll'applauso o la reticenza del pubblico festajuolo. Bastavano questi motivi per rimettermi breve ora in sua compagnia, per riparlare a me stesso di lui.
Momi lo chiamarono li intimi. Giunse a Milano da Brescia e da Verona intorno al 1880; scrisse le prime novelle per isvago, raccolte e pubblicate dalle gazzette ebdomadarie allora in voga; gli serví, dopo, la letteratura per lavoro serio e per determinato guadagno. Amò dirsi uno dei pochi uomini di lettere italiani, i quali potessero vivere, e non tirchiamente, della loro prosa romantica e dramatica; se lo contesero li editori Baldini, Castoldi e C. sul trust invadente e di ignobile serrata spadroneggiante de' Treves e de' loro prestanomi.
Egli esercitò il suo mestiere e l'arte sua piccola borghese con fervore ed onestà; ed, incontrandolo, il mio Verso Libero, gli ha inchinato il merito: «Un galantuomo che io amo e stimo, Gerolamo Rovetta, veniva in fama, a poco, a poco, con delle sicure qualità di osservazione, di arguzia e di critica: ma in quale stile?
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