Egli fu un remissivo leggermente scettico: se usò, qualche volta, il cinismo della cruda espressione zoliana, lo spolverò di romanticheria sentimentale. Un Romanticismo, infatti, tiene tutt'ora le scene, con questa diarrea di commemorazioni carnascialesche, non saprei se piú impudiche, o meglio sfacciatamente carnevalesche e reddituarie; ma un Romanticismo che porta segno costituzionale, un'oscura e grave lacuna, soppresso, dal giuramento della Giovine Italia mazziniana, l'aggettivo repubblicano, verso cui - tirata ad effetto e pistolotto istrionico - certo non sarebbero scrosciati li applausi dalle mani bianco-inguantate, perché plebeamente rivoluzionario.
Onde, la Patria nella storia e nell'arte condí in brodetto-sguazzetto di rane; e perciò appunto nell'opera del Rovetta e nella società ch'egli usò e descrisse, rimase cosí piccola e cosí meschina da chiedere l'intervento del nostro internazionalismo, per farla piú porpurea e meno anemica, sopra a tutto meno remissiva, e piú legittimamente italiana.
Furono, invece, per Gerolamo Rovetta i molti motivi mondani risaputi, ma ripresentati con una freschezza, sottili stati di animo dei ricchi, notomizzati con giusta proporzione. Rivedemmo antiche figure. Passarono per le sue novelle, pe' suoi racconti, i vecchi servi fedeli ed affezionati, li snobs insolinati incravattati, figurine - e figuri - pretenziosi di moda, zucche vuote e mannequins per giostre di parata; le sotto eccellenze e le relative eccellenze piene, mezzo forcajole; le damine ambigue in sul decidersi al piacere extra-matrimoniale; le fanciulle nobili un poco spregiudicate, che flirtano e che eccitano, per rifugiarsi nel matrimonio, allumeuses di vane passioni fredde e di vane e complesse speranze maschili.
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