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      Nadejda, la sorella uterina e modernista, di Miranda, la simbolica ipostasi di Marina di Malombra, riesce slavata e stinta da un virus tolstoiano, mal preso in carattere quasi germanico; si suicida per vergogna altrui, inutilmente, fervida per una riconciliazione, troppo presto stanca della vita, che non è chiostro, non ozio, non rinuncia, ma desiderio, volontà, compartecipazione laboriosa, sforzo cosciente al divenire.
      Nadejda è l'anima della dramatica fogazzariana; è la cera di sacristia, che piega al caldo di una giornata estiva e temporalesca, lagrimante, sopra una bara espiatoria; perciò si inarca, si flette, si rilascia, per quanto accesa, perché accesa, a toccare la bara, struggendosi: e la fiammella tremula si abbatte si inquieta, per ritrovare la normale audacia di lagrima di fuoco, di spirito, di luce, non può, si sacrifica, si spegne, si sopprime. A che pro' il sacrificio? Da codeste inutili vittime, che nessuno redimono, la vita abborre: l'arte le tace pietosa, la bellezza le obblia: le inattuali crudeltà ripugnano anche alla tragedia classica: Medea non deve uccidere i figliuoli davanti alli spettatori. Il segno cristiano è degenerativo; la dottrina s'impernia sopra la croce, che ammonisce l'ingiusta, e, perché ingiusta, divina reversibilità. Fogazzaro sacrifica Nadejda, come sacrificherà la ragione all'assurdo, quando nella diatriba del Santo, lo rimprovererà in faccia all'orgoglioso dispotismo teocratico e bestiale dell'Indice romano.
      Per intanto, Miranda, Marina, Nadejda dissolvetevi, anodini voli di fantasime volitanti in floscio incubo pauroso, dissolute e senza posa nell'ignoto e nel dubbio che vi tormenta; voi che ci tormentate della vostra inquietudine imprecisa, come un abbozzo di volontà e di intelligenza, come una interrogazione di superflue oziosità sulla necessaria compostezza della esistenza, che bisogna saper vivere serenamente: anime torbide, anime ascetiche verso cui il vero misticismo, che è gnosi - cioè sapienza e fiducia e coscienza - non scese mai; e volle l'autor vostro gabellarvi per mistiche, cioè semplicemente strambe di ebefrenica feminilità.


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Scritti critici
di Gian Luigi Lucini
pagine 354

   





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