Antonio Fogazzaro, che non ebbe mai gusto d'arte, non seppe trascegliere la propria filosofia, pur facendone un centone ecclettico. Dove doveva egli poggiare? Seguir Tolstoi? Si sarebbe giunto ad abolire il principio di autoritŕ: l'uguaglianza francescana e slava del solitario di Jásnaja Poliana lo spaventarono come l'anarchia. Ma quando morí il vegliardo di quella magnifica morte esemplare, osň susurrare la sua parola su di lui; il meglio ed il peggio gli rimasero in gola. Seguire Emerson? Era affidarsi all'americana, a spingersi, per l'una parte al bluff di William James praticato da lui ultimamente con Roosevelt, ed avere il pericolo, dall'altra, d'imbattersi colla severitŕ stoica ed imperatoria di Carlyle. Breve il passo, dalli eroi di costui, a Mazzini, al suo rivoluzionario Dio e Popolo. E Fogazzaro, «un René Bazinannacquato» (lo chiamň l'amico mio, Remy de Gourmont) si accontentň della fenomenologia idealista del trapassato Hegel. Era, del resto, di moda: da qui fan derivare ogni cosa i pragmatisti italiani; e, da lui, Benedetto Croce si č fatto la fama di filosofo geniale... ed originale.
Pure il germanesimo non gli fece schivare Antonio Rosmini, il piú tedesco dei nostri filosofi, il sospettato, a ragione, dalla Curia, per le sue quaranta, o giú di lí, proposizioni ereticali, il sostenuto dalla Curia per forza e per l'abito abbaziale. Sí che, continuandolo, derivandone delle applicazioni di una certa utilitŕ conservatrice, ebbe a seguito Monsignor Bonomelli e li altri intimi di scienza e di prevveggenza sociale; a lui si rivolsero tutele di emigranti all'estero, tutele di moralitŕ pubbliche, raccomandazioni per l'antialcoolismo, prevenzioni al vagabondaggio, alla prostituzione, riflesso di un Béranger d'ugonotta predicazione al Senato di Parigi.
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