Ed a me, postremo Demiurgo di Maschere, sarà dato forse costituire con questi, dedicati ai bimbi del domani, altri nuovi Drami di piú insolita prosodia e di piú personale vernacolo.
Per intanto può dirvi il filologo: «Vedete; i dialetti sono, al giorno d'oggi, in sul morire. Come, verso la metà del secolo scorso, le diverse signorie italiche venivano, o per armi vittoriose, o per interne rivoluzioni, o per necessità storiche, riassorbite in una nazione sola, cosí accadrà pure delle espressioni vernacole speciali che individualizzano le diverse provincie. Tutta l'Italia, dall'Alpi al Lilibeo, tutta sia di lingua italiana. Oggi, noi dobbiamo parlare ortogonicamente: il nostro pensiero genovese, piemontese, lombardo, romagnolo, veneto, toscano, romano, napoletano, siciliano si deve mascherare sotto la palandrana della Crusca: senza Fanfani e Rigutini non vi è salvezza! Credete a noi; ed a Sperone Speroni: ci ha scritto: «La favella è comune a donne ad uomini di ogni etade e condizione; la scrittura è propria del cittadino. La favella è natura ed usanza nostra; però i servi e le balie ne sono maestri. La scrittura è bell'arte la quale insegnano i letterati!».
Non date ascolto ai filologhi: essi trattano la letteratura come un cadavere alla notomia: essa è viva, si agita, cammina, corre, assume tutte le positure, li atteggiamenti che il secolo le impone, che li uomini le obbligano, che la Nazione comanda: tanto è vero che Dante sino da quel tempo de eloquio condendo, fenomenalista principe, ne vedeva e ne consacrava l'evoluzione: «Alla lingua generale è tanto difficile dar regola ch'io lo stimo impossibile!
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