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      Un greco, Alessandro Magno, avea inteso meglio quai doveri avesse un conquistatore. Non bastò alla sua ambizione, non meno generosa che insaziabile, di sottoporre il mondo alle sue armi; volle sottoporre anche la natura alla scienza. Quando gli fu aperto l'impero dei Persiani, fece padrone il suo maestro Aristotile di valersi di somme immense, e di comandare a migliaja d'uomini in Grecia ed in Asia, cacciatori, uccellatori, pescatori, i quali dovevano inviare al filosofo le specie dei più rari animali e le più curiose osservazioni "perchè nulla di quanto ha vita gli restasse ignoto." Per una combinazione felicissima, combinazione unica nella storia, avvenne che un'anima regia, tanto valorosa da conquistare il mondo, fosse al medesimo tratto tanto sublime da volere che fosse esplorato, e che inoltre egli avesse per raccogliere tanti tesori il genio più vasto, più universale, il più capace di abbracciare tutta la natura. Dei cinquanta volumi composti da Aristotile sopra gli animali, uno solo è in piè, e di tal precisione, che gli scienziati moderni ne hanno stupore.
      Noto l'inettitudine scientifica dei Romani, di tanto inferiori ai Greci, per far meglio spiccare il merito di Lucrezio, il quale, dei primi a Roma, s'è occupato intorno a queste materie difficili, e sebbene, a dir vero, non mostrasse maggiore originalità che i suoi concittadini, seppe almeno esporre nella sua lingua, con precisione pari allo splendore, la fisica di una grande scuola. Anche s'intende meglio come il poeta fosse entusiasta del suo maestro, ed ammirasse senza riserva e senza critica dei paradossi che, nella sua semplicità romana, ei doveva credere il sommo della scienza.


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Della natura delle cose
di Tito Lucrezio Caro
Casa Editrice Sonzogno Milano
1909 pagine 330

   





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