Consideravano sè stessi, ed erano considerati da moltissimi loro vicini, non come malfattori, ma come martiri che suggellavano col proprio sangue la verità della religione protestante. Pochi de' condannati si mostrarono pentiti del già fatto. Molti, animati dall'antico spirito puritano, andarono incontro alla morte, non solo con fortezza, ma con esultanza. Invano i ministri della Chiesa stabilita gli ammonivano intorno alla colpa della ribellione, e alla importanza della assoluzione del prete. La pretesa del Re ad autorità illimitata nelle cose temporali, e la pretesa del clero al potere spirituale di legare e di sciogliere, movevano a riso quegl'intrepidi settarii. Taluni di loro composero inni in prigione, e li cantavano sulla funebre treggia che li menava a guastare. Cristo - cantavano essi, mentre spogliavansi per patire il macello - sarebbe tra breve venuto in terra a redimere Sion, ed a far guerra a Babilonia; avrebbe innalzato il proprio vessillo, suonata la tromba, e reso ai suoi nemici dieci volte più quel male che era stato fatto ai suoi servi. Le estreme parole loro furono notate; le loro lettere d'addio serbate come tesori; ed in tal modo, mescendovi qualche invenzione o esagerazione, formossi un copioso supplemento al martirologio de' tempi di Maria la Bevisangue(540).
LVI. È pregio dell'opera fare speciale menzione di alcuni casi. Abramo Holmes, ufficiale veterano dello esercito parlamentare, uno di quei zelanti che non vorrebbero altro Re che Re Gesù Cristo, era stato preso in Sedgemoor.
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