Con imperterrita fronte imprecò sul proprio capo tutti i mali in questo e nell'altro mondo ove fosse traditore. Protestò dicendo il suo solo delitto essere quello d'avere servito troppo bene la Corona. Non aveva egli dato pegni alla causa del Re? Non aveva egli rotto ogni ponte, che nel caso d'un disastro potesse servirgli di ritirata? Non aveva fatto il possibile per sostenere la potestà di dispensare; non aveva seduto nell'Alta Commissione, e firmato l'ordine d'imprigionare i Vescovi; non era comparso come testimonio contro loro, a risico della vita, fra i fischi e le maledizioni delle migliaia di spettatori che riempivano Westminster Hall? Non aveva egli data la estrema prova di fedeltà abiurando la propria fede ed entrando nel grembo della Chiesa detestata dalla nazione? Che poteva egli mai sperare da un mutamento politico? E che non aveva egli mai da temere? Questi ragionamenti, comechè fossero solidi ed espressi con la più insinuante destrezza, non potevano spengere la impressione prodotta dai bisbigli e dalle relazioni che giungevano da cento parti diverse. Il Re divenne ogni dì sempre più freddo. Sunderland tentò di sostenersi col soccorso della Regina; ottenne una udienza, e trovavasi già nello appartamento di lei, allorchè entrò Middleton, e per ordine del Re gli chiese i sigilli. Quella sera il caduto ministro fu ammesso per l'ultima volta alle secrete stanze del principe da lui lusingato e tradito. La scena fu stranissima. Sunderland sostenne maravigliosamente la parte della virtù calunniata.
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