La stupidità, l'ostinatezza, e la superstizione - in questa guisa ragionava il Primate - avevano reso Giacomo inetto a reggere i propri dominii come un fanciullo in fasce, o un pazzo che nel Manicomio di Bedlam si giaccia sulla paglia digrignando i denti e dicendo scempie parole. Era dunque mestieri appigliarsi al provvedimento preso allorchè Enrico VI era infante, e una seconda volta abbracciato allorchè fu colpito da letargia. Giacomo non poteva esercitare l'ufficio di Re; ma doveva seguitare ad avere sembianza di Re. I decreti dovevano portare il suo nome, le monete e il Gran Sigillo essere segnati della immagine ed epigrafe di lui; gli Atti del Parlamento portare gli anni del suo regno. Ma il potere esecutivo doveva essergli tolto, ed affidato a un Reggente eletto dagli Stati del Reame. In questa guisa, sosteneva con gravità Sancroft, il popolo non mancherebbe al proprio debito, strettamente manterrebbe il giuramento di fedeltà prestato al suo Re; e i più ortodossi anglicani, senza il minimo scrupolo di coscienza, potrebbero esercitare gli uffici sotto il Reggente(1295).
La opinione di Sancroft era di gran peso nel partito Tory e segnatamente nel clero. Una settimana innanzi il giorno stabilito al ragunarsi della Convenzione, una congrega di gravissimi uomini nel palazzo Lambeth, assistè alle preci nella cappella, desinò col Primate, e finalmente si strinse a consulta intorno alle pubbliche faccende. V'erano presenti cinque suffraganei dello Arcivescovo, i quali nella decorsa estate avevano secolui diviso i perigli e la gloria.
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