Siccome la Chiesa di Roma ha esclusivamente, e scrupolosamente limitato al servizio del culto una lingua morta, non bisogna maravigliarsi della gelosia, con cui ha sempre riguardate le traduzioni delle Scritture in lingua volgare. Vi sarebbe pure meno ragione di meraviglia per questo, se prestassimo fede all'asserzione di un dotto Italiano, che fino al secolo XVI tutte le prediche nelle chiese erano fatte in latino, e che quelle in italiano si facevano, non entro le mura consacrate, ma nelle piazze, o in altri luoghi simili (89). Questa asserzione però è stata contestata. Pare che la verità sia che nel secolo XIII le prediche si facevano in latino, e quindi al basso popolo si spiegavano in italiano; e nella storia del secolo XV s'incontrano degli esempj di quest'uso (90). Si pretendeva di sostenere, che la dignità del pulpito, e la santità della parola di Dio era compromessa da un uso diverso; con egual forza si poteva anche dire, che "le Sacre Scritture si [65] avviliscono traducendole in lingua volgare" (91). Però, malgrado questo pregiudizio, appena la lingua fu formata, e purificata da Dante, dal Petrarca, e da altri, ebbero subito principio le traduzioni della Bibbia in italiano, e nello spazio di pochi anni uscirono alla luce, tosto che fu inventata l'arte di stampare.
Si dice che Jacopo da Voragine, Vescovo di Genova, e autore dell'Aurea Leggenda, abbia tradotte le Scritture in italiano fin dalla metà del secolo XIII (92). È certo che in seguito da più d'uno si fece questa traduzione, ma fu eseguita, com'è facile a supporsi, in una maniera barbara e rozza (93). Fin [66] dall'anno 1471 (94) fu stampata una versione delle Scritture in italiano da Nicola Malermi, o Malerbi, monaco camandolese; e si dice, che nel secolo XV ne furono fatte fino a nove edizioni, e dodici nel secolo XVI (95). Ciò prova che gl'Italiani erano almeno, dediti alla lettura di libri in lingua volgare, se in quel tempo non esisteva fra loro un desiderio generale per la parola di Dio.
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