Furono spediti degli ambasciatori per domandare il prigioniero; ma trovaron quelli, che era stato già tradotto a Roma, e il duca di Terra Nuova governatore, disse loro, che quel rapimento era opera degli inquisitori, sopra i quali non aveva autorità alcuna.(582) Dopo essere stato tenuto quasi un anno in carcere, Cellario a Roma fu giudicato dall'Inquisizione e bruciato il 20 maggio 1560(583). L'uso di rapire [401] gli uomini divenne in quel tempo traffico costantemente esercitato nella Valtellina, e in ogni dieta, per un dato corso d'anni, si facevano dei ricorsi per gl'individui rapiti; nè quei rapimenti si eseguivano assolutamente sopra gli esuli italiani, ma si estendevano eziandio agli indigeni della repubblica (584). Dall'esame delle circostanze, risultava che n'erano implicati i frati di Morbegno, i quali erano soliti di dare regolarmente tali informazioni agli inquisitori, da prendere le loro vittime (585). Nè si limitavano a ciò. Dopo il ratto di Cellario, Ulisse Martinengo, conte di Barco, nobile, dotto, e pio uomo, che per molti anni era stato nella Valtellina, officiò in sua vece fino all'ammissione di Scipione Calandrino, Lucchese, che la congregazione aveva scelto per suo pastore. I frati, che attendevano alla dispersione di quel gregge, s'irritarono terribilmente nel vedersi delusi nelle loro speranze; di modo che due di essi, entrati un giorno nella chiesa di Mellio, tirarono un colpo di pistola a [402] Calandrino, che stava in atto di predicare. Un vecchio se ne avvide nel momento che lo ponevano sotto la mira, e potè avvisare a tempo Calandrino, onde mandare il colpo a vuoto.
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