Questo giudizio che i Romani dettero, quanto sia necessario si conferma ancora per la sentenza che dettero de' Privernati. Dove si debbe, per il testo di Livio, notare due cose: l'una, quello che di sopra si dice, ch'e' sudditi si debbono o benificare o spegnere: l'altra, quanto la generosità dell'animo, quanto il parlare il vero giovi, quando egli è detto nel conspetto di uomini prudenti. Era ragunato il Senato romano per giudicare de' Privernati, i quali, sendosi ribellati, erano di poi per forza ritornati sotto la ubbidienza romana. Erano mandati dal popolo di Priverno molti cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo venuti al conspetto di quello, fu detto a uno di loro da uno de' Senatori, «quam poenam meritos Privernates censeret». Al quale il Privernate rispose: «Eam, quam merentur qui se libertate dignos censent». Al quale il Consolo replicò: «Quid si poenam remittimus vobis, qualem nos pacem vobiscum habituros speremus?». A che quello rispose: «Si bonam dederitis, et fidelem et perpetuam, si malam, haud diuturnam». Donde la più savia parte del Senato, ancora che molti se ne alterassono, disse: «se audivisse vocem et liberi et viri; nec credi posse ullum populum, aut hominem, denique in ea conditione cuius eum poeniteat diutius quam necesse sit, mansurum. Ibi pacem esse fidam, ubi voluntarii pacati sint, neque eo loco ubi servitutem esse velint, fidem sperandam esse». Ed in su queste parole, deliberarono che i Privernati fossero cittadini romani, e de' privilegi della civilità gli onorarono, dicendo: «eos demum qui nihil praeterquam de libertate cogitant, dignos esse, qui Romani fiant». Tanto piacque agli animi generosi questa vera e generosa risposta; perché ogni altra risposta sarebbe stata bugiarda e vile.
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