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      Dico ancora come si scrivano molte cose che, senza scrivere i motti e i termini proprii patrii, non sono belle. Di questa sorte sono le commedie; perché, ancora che il fine d'una commedia sia proporre uno specchio d'una vita privata, nondimeno il suo modo del farlo è con certa urbanità e termini che muovino riso, acciò che gli uomini, correndo a quella delettazione, gustino poi l'esemplo utile che vi è sotto. E perciò le persone con chi difficilmente possano essere persone gravi, la trattano; perché non può esser gravità in un servo fraudolente, in un vecchio deriso, in un giovane impazzato d'amore, in una puttana lusinghiera, in un parasito goloso; ma ben ne risulta di questa composizione d'uomini effetti gravi e utili alla vita nostra. Ma perché le cose sono trattate ridiculamente, conviene usare termini e motti che faccino questi effetti, i quali termini, se non son proprii e patrii, dove sieno soli, interi e noti, non muovono né posson muovere. Donde nasce che uno che non sia toscano non farà mai questa parte bene, perché, se vorrà dire i motti della patria sua, farà una veste rattoppata, facendo una composizione mezza toscana e mezza forestiera; e qui si conoscerebbe che lingua egli avessi imparata, s'ella fusse comune o propria. Ma se non gli vorrà usare, non sappiendo quelli di Toscana, farà una cosa manca e che non arà la perfezione sua. E a provare questo, io voglio che tu legga una commedia fatta da uno degli Ariosti di Ferrara, e vedrai una gentil composizione e uno stilo ornato e ordinato, vedrai un nodo bene accomodato e meglio sciolto; ma la vedrai priva di quei sali che ricerca una commedia tale, non per altra cagione che per la detta, perché i motti ferraresi non gli piacevano e i fiorentini non sapeva, talmente che gli lasciò stare.


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Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua
di Niccolò Machiavelli
pagine 17

   





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