Pensoso più d'altrui che di se stesso.
Sapeva messere Stefano i poeti molte volte essere di spirito divino e profetico ripieni; tal che giudicava dovere ad ogni modo intervenire quella cosa che il Petrarca in quella canzona profetizzava, ed essere egli quello che dovesse essere di sì gloriosa impresa esecutore; parendogli, per eloquenzia, per dottrina, per grazia e per amici, essere superiore ad ogni altro romano. Caduto adunque in questo pensiero, non potette in modo cauto governarsi, che con le parole, con le usanze e con il modo del vivere non si scoprisse, talmente che divenne sospetto al Pontefice, il quale, per torgli commodità a potere operare male, lo confinò a Bologna, e al governatore di quella città commisse che ciascuno giorno lo rassegnasse. Non fu messer Stefano per questo primo intoppo sbigottito, anzi con maggiore studio seguitò la impresa sua, e per quelli mezzi poteva più cauti, teneva pratiche con gli amici; e più volte andò e tornò da Roma con tanta celerità, che gli era a tempo a rappresentarsi al governatore infra i termini comandati. Ma dappoi che gli parve avere tratti assai uomini alla sua volontà, deliberò di non differire a tentare la cosa; e commisse agli amici i quali erano in Roma che, in un tempo determinato, una splendida cena ordinassero, dove tutti i congiurati fussero chiamati, con ordine che ciascheduno avesse seco i più fidati amici, e promisse di essere con loro avanti che la cena fusse fornita. Fu ordinato tutto secondo lo avviso suo, e messere Stefano era già arrivato nella casa dove si cenava, tanto che, fornita la cena, vestito di drappo d'oro, con collane e altri ornamenti che gli davano maestà e riputazione, comparse infra i convivanti, e quelli abbracciati, con una lunga orazione gli confortò a fermare l'animo e disporsi a sì gloriosa impresa.
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