(70) Sì che ci parve di poter dire esser quella la massima grossezza superata dalla rarefazione dell’acqua serrata nell’agghiacciarsi. Arrivatosi a questo, ci venne voglia di ridur questa forza a quella d’un peso morto; ed il modo di conseguirlo ci pareva che fosse il far gettare della stessa pasta e crudezza di metallo un anello di grossezza uguale alla grossezza della palla e di forma conica, e in questo inserire il suo mastio di ferro, talmente che l’esterna superficie di esso mastio combagiasse perfettamente con la superficie interna dell’anello, sopra del quale anello sopravanzasse tanto di detto mastio quanto fosse l’altezza in circa del medesimo anello. Questo così accomodato pensavano di collocarlo sopra una grossa tavola di pietra forata a tondo nel mezzo a misura un pelo più larga del vano inferiore dell’anello. Quivi poi era il nostro pensiero d’andar caricando il mastio per di sopra con peso morto, o pure d’aggravarlo per sotto con appendere il medesimo peso a un oncino fabbricato nell’asse di detto mastio, acciocché la forza del peso, operando per la dirittura di quello, venisse a cacciar il mastio dentro l’anello e sì a sforzarlo più ugualmente; e come si fosse col peso ad un certo segno, badar ad aggiugner pezzuoli di piombo infintanto che si trovasse quel peso minimo che schiantasse l’anello. A fine poi d’assicurarci che la resistenza di quello a strapparsi non fosse fatta forte dal toccamento della sua base su la scabrosità della pietra, avevamo coscetto di saldare intorno al foro della tavola una piastra d’acciaio brunita, e di smussare e di brunire altresì la base inferiore dell’anello per ridurre in cotal guisa il toccamento ad una mera circonferenza, e a quella levare ogni attacco di minima resistenza ad aprirsi mediante la liscezza sfuggevole dell’acciaio.
| |
|