Leghisi dipoi l’estremità A al termine G della bilancia G H di braccia uguali, il cui centro I, ed all’altro termine H s’attacchi il peso L uguale al peso assoluto del cilindro A B C. È manifesto al senso che per distaccare il cilindro A C dal piano sottoposto non basta la forza del peso L, per lo che vadasi aggiugnendo nuovo e nuovo peso al termine H, fintanto che i due pesi L ed M sollevino il cilindro A C resistente al sollevamento con doppia forza, cioè con quella del proprio peso uguale ad L e con quella del toccamento o repugnanza al voto o altra forza diversamente interpretata; la rimanente forza del peso M non adeguerà solamente ma supererà la forza dell’attaccamento delle dette superficie.
Misurata che si sarà tal forza (la quale nel nostro strumento batteva in tre libbre) mettasi il cilindro A B C (92) in un vaso cilindrico N O P di legno o di terra cotta e vetriata, d’uguale altezza o maggiore, e tanto vi si profondi che la base B C s’unisca per toccamento con la base O P del vaso anch’essa coperta di sottil piastra di metallo o di vetro spianato e terso. Infondasi poi dell’argento vivo nel vaso N P, e s’alzi pure a qualsivoglia altezza fino a coprire il cilindro A B C, che questo mai non si distaccherà. Ma stacchisi finalmente a mano la base B C dalla O P, e lascisi in libertà il cilindro A C, ch’ei si vedrà subito con grand’impeto levarsi a galla sopra l’argento.
Cercasi ora quanta sia questa forza sollevante che si suppone di leggerezza. Da noi fu trovata così. Caricammo la base A del cilindro con un tal peso Q che bastasse a tirarlo a fondo e quivi trattenerlo dal galleggiare: il qual peso nella nostra esperienza essendo stato intorno a cinque libbre, tante concludemmo esser la misura della forza che si cercava.
| |
|