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      Pertanto, legata una grossa corda a un tronco di albero, il più resistente che trovarono sulla ripa, la lanciarono nel profondo, e il Canavese afferrandola, vi si affidava a cuor leggiero, lasciandosi dalla bocca, andar giù penzoloni, mentre i compagni stavano a osservare. Sdrucciolando bel bello, percorse uno spazio di cinque o sei metri, e si fermò a pigliar lena; quindi giù ancora scivolava coraggiosamente nel vano per altri quattro o cinque metri, sinchè gli riuscì di posare i piedi su d'una sporgenza, o masso; sul quale prendendo respiro, seguitò di nuovo a lasciarsi andare per altri sei o sette metri; nel qual punto incontrava altra sporgenza, da cui ottenne un breve e poco fido appoggio. La lena cominciava a mancargli e con la lena la fiducia; guardò all'ingiù nel pozzo, e la profondità gli apparve incalcolabile e terribile. Osservando in alto, non si sentiva capace a rifar la salita; durarla sospeso, impossibile intanto la corda gli scivolava di mano....
      Giù e giù, e’ perdette ogni energia, chiuse gli occhi.... e precipitò.
      Fortuna volle che la profondità paventata, fosse, relativamente, breve: da otto a dieci metri; e volle ch'ei cadesse sopra uno strame di fogliame secco, da tre o quattro metri, secondo gli parve, di spessore: onde nessun danno. Rimase però come intontito. Cominciò a guardare pauroso intorno intorno, e l'aspetto tetro del luogo, la luce fioca ed incerta, l'umidità penetrante gli resero più fastidiosa la spossatezza del corpo, e si credè più in basso di quanto realmente fosse arrivato.


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La leggenda del Burando
Streghe folletti e apparizioni in Liguria
di Baccio Emanuele Maineri
Tipogr. Franceschini Firenze
1900 pagine 256

   





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