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      Nello scompiglio della memoranda caduta ogni cosa andò a rifascio; le famiglie più ricche abbandonarono la città; il pandemonio democratico ne accrebbe la desolazione; i negozianti più solidi si ritirarono dal commercio, ed anche Petronio Buratti chiuse il suo banco. Pietro lo perdiamo di vista; la sua Musa tacque; una pagina bianca segna questo sciagurato periodo. Ma ciò non prova che il poeta non amasse la patria. Vi sono tali impensate vicende, rovine così grandiose, da svegliare i morti nei loro sepolcri, come direbbe Hugo. E allora imperversa nel cuore dell’uomo un tumulto di passioni, d’affetti, di recenti e lontane memorie, che confonde sbalordisce intenebra la ragione.
      Nelle carte pubbliche di quel tempo trovo solamente un Antonio Buratti, fu Benedetto, dapprima nel Comitato di banco-giro commercio ed arti, che teneva le sue ragunanze nelle sale dei Cinque Savi in Palazzo Ducale; poi ne’ registri delle tasse inscritto per 26,000 lire; quindi in ottobre del ’97 scelto deputato a Parigi con Dandolo, Sordina, Giuliani, Carminati e Widman - carica per altro che rifiutò, e fu data invece a un Armano. Ma chi era questo Antonio Buratti del fu Benedetto? Di preciso non so: può darsi fosse il padre di Petronio, oppure il fratello: apparteneva certo alla famiglia di Pietro.
      Questi non ci riapparisce che di lì a cinque anni, probabilmente dopo un lungo soggiorno a Bologna da’ suoi parenti. Venezia godeva una tranquillità relativa sotto un governo austriaco; il commercio, benchè parecchio indebolito, avea cominciato a riprender lena, e la casa Buratti riannodò i negozî sospesi.


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Il principe dei satirici veneziani Pietro Buratti
di Vittorio Malamani
Tipografia dell'Ancora Venezia
1887 pagine 115

   





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