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Il nobil uomo Domenico Michieli, per la sua fisonomia trucemente bizzarra, ebbe la carica di Aiutante del carnefice; un tal Bonfadini, ch’era un po’ balbo, di Stenterello; e un Mioni, balbuzientissimo, un artista del genere, che alla balbuzie univa uno zufolo stridulo e continuo, di Gran Tartaglia di Corte. Ognuno dei neo-busoni, appena ricevuta la nomina, dovea ringraziare il duca con un discorso in prosa o in versi, ma in versi per lo più, e quasi sempre li scriveva il Buratti. Venuta la volta del Mioni, pensò di giocargli un brutto tiro, e distese una cicalata in rime ostrogote, con certi avverbi lunghissimi e difficilissimi. Imaginava di ridere e di far ridere a crepapelle a spese del Gran Tartaglia, ma quale non fu la meraviglia sua e degli altri quando costui tirò fuori gravemente il suo bravo discorso, e lo lesse franco come un dottore, senza inciampare una sola volta? Era un uomo che doveva leggere tutta la vita, e parlare mai. Quì potrei far l’applicazione dei famosi pifferi di montagna, ma è roba troppo vecchia: ognuno può farla da sè.
Nei Busoni c’eran parecchi poeti, o che tali almeno si credevano. Fra loro si voleano bene come colombe e si ricambiavano un mondo di gentilezze, e più volte se in buon punto non capitavano il Gran sicario e l’Aiutante del carnefice a separarli, si sarebbero scambiati anche degli amorosissimi pugni. Una volta, per esempio, il Buratti cantò le gesta di una cortigiana. Il conte Pola, che era innamorato di essa, se ne offese: gagliarda fu la disputa, e tutta la Corte dovette interporsi fra i litiganti, e obbligarli a spegnere nello sciampagna le ardenze soverchie.
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