Sciampagna e vin del Reno e sontuose cene, doveano pagare quelli fra i Busoni che davano prova d’inesperienza in amore o in previsioni politiche, e il processo veniva instruito regolarmente, e la sentenza emanata da un’Alta Corte di Giustizia, improvvisata per l’occasione.
S’intende bene che il fondamento di questa curiosa società era la satira; e s’intenderà forse come il Buratti riuscisse in breve a maneggiare potentemente la ferula di Giovenale. Fu colà che raggiunse come poeta la sua massima altezza. Non si cerchi ne’ suoi versi la grazia, l’atticismo dei sali; manca nella maggior parte. Sale ce n’è, anzi troppo, ma sal grosso, sal di cucina. Non sono satire da salotto, per divertire, far sorridere le signore; satire che sfiorano gentilmente la pelle, e fanno dire: il poeta è un uomo di spirito - ma staffilate sanguinose che, a cui toccavano, strappavano a brani a brani la carne; castighi terribili che faceano fremere anche gli estranei; ferri infuocati, tenaglie roventi. La saporita e facile arguzia veneziana si sposa allo sfrenato impeto d’una fantasia mirabilmente vasta e pieghevole, ma intemperante, e troppo facile a varcare certi confini che un galantuomo rispetta. Non era malvagità di cuore che spingesse così innanzi il Buratti, ma leggerezza di carattere, difetto massimo della sua educazione. «Le satirette» - diceva egli con diminutivo un po’ ironico, se vogliamo - «le satirette sono in me quello che sono i fulmini in mano della Divina Provvidenza. Per il buon ordine del creato ve ne dev’essere annualmente uno stabilito numero, poco importando il nome della vittima.
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