È inedito, ma quantunque il tempo gli abbia fatto perdere molta parte del suo sapore, sarebbe da pubblicarsi come monumento di poesia paesana, contributo prezioso alla storia dei costumi.
Non mi resta ora che presentare la più celebre lingua di Venezia, il più perfetto tipo di maldicente che sia stato al mondo, in Giuseppe Ancillo, esercitante la lugubre professione di farmacista in campo San Luca a Venezia, dove esistono ancora gli eredi, e insignito dalla Corte dei Busoni della cospicua carica di Don Marzio. Nel vestire pigliava sempre a modello l’ultimo figurino, anzi spingeva la moda all’eccesso, e si serviva dal Venezoni di Milano, riputato a quel tempo il primo sarto d’Italia. Avea la capigliatura eternamente impiastricciata di pomate e di cosmetici olezzanti, e lucida come l’armatura nuova di un guerriero medievale; incollata poi su la cotenna in modo, che il razzolare d’una gallina credo che non l’avrebbe scomposta di un pelo. Il nodo della cravatta pareva dipinto, i capi misurati col compasso; una dozzina di ciondoli tintinnavano sul panciotto; niuno a Venezia si ricordava di averlo veduto senza guanti e senza scarpette inverniciate, nemmeno quando bolliva i decotti e componeva le pillole. Era quel che le signorine chiamano un giovinotto galante, perchè di rado queste gentili creature vogliono o sanno far due cose di un uomo e del suo vestito.
Mezze delle sue giornate le consacrava a raccogliere novità e pettegolezzi, onde aver materia di piccanti conversazioni. Se qualche volta i pettegolezzi o le novità scarseggiavano, ei ne creava e diffondeva, salvo poi dopo a smentirsi.
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