Abitava a San Samuele, in palazzo Mocenigo. In realtà la sua penna era così temuta, che una notte da Florian un settuagenario, certo Biagio Zara, il quale dovea avere, penso, molti peccati sulla coscienza, lo aspettò due lunghe ore per gittarglisi ai piedi, e pregarlo di non fargli una satira.
Il Buratti e l’Ancillo non si volevano bene, ma stavano sempre insieme. Più volte il primo tentò di rompere la catena che lo legava al secondo, ma in una nota confessa: «le risoluzioni forti non sono del mio carattere.» Fra i loro amici comuni c’erano il conte Tomaso Mocenigo Soranzo, noto col vezzeggiativo di Tomaetto, e Giovanni Papadopoli, i quali con ragione amavano di condur vita gioconda. Il Soranzo, gran signore e tuttavia senza famiglia, invitava ogni giorno alternativamente i più intimi a splendidi pranzi, riserbando il giovedì e la domenica per le signore e per i conoscenti d’occasione. I pranzi degli intimi erano una continua festa, un battagliare di frizzi, un incessante succedersi di ragionamenti bizzarri e grassocci, di argutissimi scherzi, di nuove e sempre matte invenzioni. Fu un tempo nel quale il Buratti, amabile sibarita, era l’eroe di quei banchetti. Un giorno i convenuti - fra cui notavi il Mustoxidi, Alvise Quirini, il Tordorò, e il nobil uomo Sangiantoffetti, bello e grazioso come una donnina - si crearono da sè stessi cardinali, ed elessero a pieni voti Sommo Pontefice il Buratti, col nome di Sisto. Egli prese tosto sul serio la propria missione e scrisse Il conclave, lunga poesia, ricca di talento e di pregi, in cui nominava con diverso elogio tutti i cardinali presenti.
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