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      Non c’era cosa, per quanto piccola, che sfuggisse all’occhio penetrante e osservatore di lui, e a breve andare notò che l’Ancillo si distingueva sopra gli altri invitati per l’eccessiva ghiottoneria. Lui fissava il giorno dei pranzi e suggeriva al Soranzo i commensali per non essere dimenticato; lui divorava le pietanze con gli occhi prima che con la bocca, e quando avea il piatto dinanzi lo teneva fermo con la mano sinistra per paura che gli scappasse via; lui impugnava le bottiglie vuote prima che i camerieri le togliessero dalla mensa, e se le rovesciava sulla bocca per libarne le ultime goccie. Il Buratti aspettò l’occasione propizia, e in un brindisi, con trasparenti allusioni disse:
      Magno, ma dentro el piatoNo cazzo tutto el muso,
      Ma no ghe moro susoSmanioso più de un can;
      Ma tre, ma quatro volteNo replico i boconi,
      Nè slongo(44) un per de ochioniSu quel che xe lontan;
      Ma no prescrivo el numeroDei comensali al conte,
      Che inesauribil fonteDe mache a nu xe sta;
      Ma in moribondi anelitiNo invidia la mia gola
      Quel che va via de tola(45)
      Ai servi destinà.
      Peccato che una volta, lasciatosi un po’ troppo sedurre dalla vena satirica, il Buratti pungesse un amico prediletto del Soranzo, e gli fosse da questi chiusa la porta di casa sua. Il poeta, per iscusarsene, afferma che quel gentile signore era «un zorno da late e un zorno da vovi».(46)
      I pranzi del Papadopoli erano più modesti perchè non oltrepassavano mai i dodici coperti, ma non meno allegri, nè meno cordiali. Il Buratti soleva fare ogni volta un brindisi, e invariabilmente chiudeva pigliando il tratto innanzi ed assicurandosi l’invito per la prossima volta; cosicchè potè scrivere:


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Il principe dei satirici veneziani Pietro Buratti
di Vittorio Malamani
Tipografia dell'Ancora Venezia
1887 pagine 115

   





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