Quando nel 1808 il Cesarotti, inspirato da un vivo sentimento di riconoscenza, consacrava gli ultimi lampi del genio a lodare Napoleone con la Pronea, gli avventò contro uno sdegnoso e piccante sonetto italiano; e dopo Marengo, sul metro medesimo dell’ode montiana, compose per un maestro di musica l’epigramma:
Più non vivi al prisco orgoglioBella Italia ed al valor,
Ma dell’arti vivi al scoglioE fra i ceppi imperi ancor.
Dopo l’audace campagna di Russia, al Cesarotti - il quale dormiva già l’eterno sonno a Padova nella chiesa del Santo, dove i cristiani cattolici e i forastieri curiosi camminavano sopra il suo capo - scagliò un insulto nuovo, che l’amore di patria poteva solo scusare:
Apena a l’altro mondo xe arivadaLa nova strepitosa del fiascon,
Anzi de la solene buzarada(49)
Che à tolto suso el gran Napoleon,
S’à sentìo ne l’Eliso una fischiadaChe à scosso da la so contemplazion
l’autor de quela celebre monada(50)
Scrita col giera vecio e col balon.
Soventi alluse a cose politiche, ma satire politiche propriamente dette non ne fece che una contro i francesi, nell’infausta occasione dell’assedio di Venezia del 1813. Quest’una è però un capolavoro del genere, meritamente famosa. Chi ha letto il mio secondo studio sulla satira veneziana(51) conosce le deplorevoli condizioni della città in quello sciagurato periodo; e i balzelli di cui si caricavano i cittadini, e il prestito forzato garantito sopra una partita di mercurio, appartenente al governo; e la fame che serpeggiava con terribili effetti, e lo strazio della miseria, e la furia della morìa. Una sera, sul cader di decembre, il consiglier Galvagna, prefetto dell’Adriatico, invitò a pranzo il Buratti.
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