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      Bon vin, bon pan, latuga, radichieto;
      Insoma xe sto logo un paradiso.
      Fazzo dopo disnar el mio chileto,
      E a le cinque, svegià, me lavo el muso,
      E de meza conquista in ton me méto.
      Benchè de parar via(85) no ghabia l’uso,
      De un cavàlo aprofito e de una sedia,
      E co un omo da drìo, ghe monto suso.
      La xe, te l’assicuro, una comedia:
      Mi lo tiro a levante e lu a ponente;
      Basta che no la termina in tragedia...
      Ma la note vien zo dal firmamento,
      El grilo fa cri cri, la rana canta,
      E de tornar indrìo vogia me sento.
      Per sigilar sta vita più che santaA le diese do mocoli se impizza(86)
      E de tresete una partìa se impianta.
      Gh’è la puta el gastaldo e la novizza,(87)
      (Orbi tuti che fa le bastonae):
      Se zoga de do soldi e se se istizza.
      Avrà notato il lettore che in questi versi è più volte accennata una fanciulla, una governante, la quale avea cura del poeta. Essa chiamavasi Arcangela Brinis, ed era figlia di un vecchio servitore della sua casa. Perchè stesse con lui, non so; ma posso affermare che il Buratti non mentiva quando giurava all’Ancillo che i suoi rapporti con essa erano affatto innocenti. L’Ancillo, naturalmente, non lo avrà creduto, lo comprendo benissimo. Infatti è cosa fuori del naturale che una colomba possa stare vicino ad un falco e non esserne divorata; ma non era che questione di tempo.
      Ogni anno il poeta avea l’abitudine di ritirarsi in campagna, e dapprima i fiori, l’alveare, il tresette potettero bastargli; ma siccome tutto annoia, allargò il desiderio, e non potendo avere gli svaghi della città, un bel dì posò il cupido occhio sull’innocente fanciulla.


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Il principe dei satirici veneziani Pietro Buratti
di Vittorio Malamani
Tipografia dell'Ancora Venezia
1887 pagine 115

   





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