A forza di pungolo e di bastone si potè trascinarlo fuori, ma ostinatamente puntando i piedi per tornare indietro, le travi cedettero sotto di lui come pagliuzze. Senza ponte l’imbarco non era possibile, e si decise di chiuderlo intanto in un magazzino poco discosto. Fu dato l’arduo incarico ad un giovinetto, Camillo Rosa di Rovigo, bello, biondo, pieno di energia e di vita, che imaginò di assicurare ad un’asta un pezzo di carne, e di camminare a ritroso nella direzione indicata; l’animale, allettato, lo avrebbe seguìto. E così fu per un poco, ma non potendo giungere ad abboccar l’esca, l’elefante perdette la pazienza, fece intendere un formidabile barrito, atterrò il giovane con la proboscide, se lo cacciò sotto i piedi poderosi, e divorata la carne, seguitò, minacciando, la sua strada. Parve il finimondo. La folla, spaventata, retrocesse in tumulto, urtando, soffocando, calpestando. In laguna egualmente. Parecchie barche affondarono. La paura non ragiona: credevano che l’elefante avesse la virtù di San Pietro!
Intanto il ferito, sanguinolento, si dibatteva negli spasimi dell’agonia, e la gente che era sui balconi, guardava tranquilla e commentava il caso, filosofando sulla carità degli uomini. Come Dio volle capitò un chirurgo, ma tardi, e in capo a quattr’ore la falce della morte recise quella giovane vita.
Tutte le botteghe si chiusero precipitevolissimevolmente: ma che importava all’elefante? Sfondò porte, svaligiò magazzini, schiantò persino il parapetto d’un pozzo. Fece per entrare in una casa a terreno dove un vispo sciame di bimbi stava trastullandosi beatamente, ma gli angeli proteggono questi cari fratelli, trovò la porta angusta e tornò indietro.
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