Quantunque gentiluomo vero e pieno di spirito egli si impensierì, e presa la posta, volò a Venezia, per quanto le poste potessero volare. Quivi trovò qualche amico infiammato d’ira, come il fatto fosse suo, che gli empì il capo di ciarle, eccitandolo a farsi fare giustizia dai tribunali. Ma dunque era proprio una cosa grave? Col sangue agitato ricercò la satira, l’ebbe, la lesse... e rise di gusto, ne ammirò la fattura poetica, e nelle sue vene il sangue riprese la solita calma. Nè il suo onore, nè la sua onestà di negoziante erano tocchi; il resto non offendeva.
- Come, non offende? - gli gridava un zelantissimo amico. - C’è questo, questo, e questo. Se di me un poeta avesse scritto simili cose, lo farei impiccare.
- Anch’ io, se fossi in te - rispondeva placidamente il marchese.
E alla sera trovò il Buratti da Florian.
- Sono quì per causa vostra.
- Per causa mia?
- Leggete - E gli porse la lettera anonima ricevuta a Milano.
Il poeta lesse.
- Credete?
- Non credo nulla. Vi perdóno. Ma ad un patto: che mi rifondiate i settantacinque centesimi spesi alla posta per ritirar questa lettera.
Il Buratti pagò, ed il marchese tornò a Milano.
Ma intanto la fama della satira si diffuse; ognuno era curioso di leggerla. Un Paolo Stella, prestinaio - condannato alla berlina durante l’ultimo assedio per aver venduto il pane a un prezzo più alto di quello fissato dal calmiere - chiese direttamente al poeta la Storia dell’Elefante per poche ore. In queste poche ore ne fece fare di nascosto quattro copie, e le mandò ai patrizî Girolamo Semitecolo, Nicolò Priuli, Filippo Molin e Lodovico Soranzo, tutti famosissimi trombettieri.
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