In due giorni mezza Venezia fu inondata di copie, e ripeteva a memoria le strofe più salienti, le quali naturalmente giunsero in questo modo all’orecchio della Direzione Generale di Polizia.
Da un minuto rapporto in data primo settembre al Governatore conte D’Inzaghi, apprendiamo che fu tosto incoato un processo contro il Buratti, qualificato per pericoloso satirico e ben noto libellista. La voce pubblica lo dichiarava autore della satira incriminata, e specialmente al caffè Florian lo dichiaravano quei giovinastri petulanti e mordaci, i quali per darsi il bel tuono di galanteria e per ostentare massime di troppo libero costume, si vantavano imitatori di lui. La stessa cosa ripetevano tre testimoni: Francesco Masotti, travet municipale; Francesco Caenazzo; e un Paolo Papette, possidente, accusatore zelantissimo, accanito. Anzi costui introdusse un quarto testimonio, il libraio Giuseppe Gnoato, che si prese la briga di additare diligentemente alla Polizia li punti più censurabili ed indecenti.(111) L’interrogatorio del Buratti è riassunto così nel rapporto predetto: «Negare non seppe di avere lui composto quella poesia in ottava rima, in vernacolo, non intitolata L’elefanteide, ma bensì Storia verissima dell’elefante. Aprì, disse, campo al suo racconto, col descrivere le vere cause per cui l’elefante erasi reso indocile, i tentativi del suo padrone onde mandarlo fuori del paese, la fuga dal casotto, l’uccisione del proprio custode, il suo rifugiamento nella chiesa di Sant’Antonino, li guasti commessi, e la sua morte.
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