» Gran fatica però gli costava quella seducente e limpida vena. Definiva un vero poeta
. . . . . . un omoRico d’erudizion, rico de sal,
Che solo in aparenza gha el secretoD’aver compagno el bèlo universal,
E che a forza de stenti e de suoriVe cambia el mondo in un zardin de fiori.
E più oltre:
In mezo a un bel zardin che spande odoriChi xe che ponze più se la tochè?
La rosa, che regina xe dei fiori,
Perchè da sta lezion, sciochi, imparè
Che senza prima ponzarve le manA sunar fiori mai no arivarè.
Taluno gli rinfacciò con ragione il soverchio abuso d’italianismi; ma in fondo codesto non è poi grave peccato. «Quando i popolareschi linguaggi» - osservava il Gamba - «serbano tenacemente le voci loro più graziose, più espressive, più dolci, non è gran male che altre se ne introducano di significanti e gentili, sempre però che provengano dalla corretta lingua comune, e da quell’incivilimento in cui salgono ogni dì più le classi della società.»
Il Gamba ammirava il Buratti, ma a modo suo. Nella Raccolta di scritti in dialetto veneziano(144) inserì parecchi componimenti di lui, però modificati nei punti che offendevano la castità del suo orecchio; è nella prefazione, da cui tolsi il passo citato, dopo avere assegnato al poeta un posto fra i nostri classici, e aver detto mirabilia delle purgate poesie contenute in quel tomo, credè suo dovere protestare contro la secreta edizione ad usum Delphini del 1823, chiamandola «un’infamia dell’editore e un disonore dei tempi nostri» perchè piena di «poesie e satire contaminate dalla gagliofferia di un pennello intriso nel putridume della calunnia e della turpitudine.
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