Così ardenti le pupille,
Che se presto non volavaL’infelice, ahimè, bruciava.
Mi par di leggere sul volto al lettore la maraviglia di vedere il Buratti, avezzo a diguazzare nei grassi discorsi dei Busoni e a porre tutto in celia, impancato a mensa coi Dottori di Bologna, e di udirlo a improvvisare madrigaletti arcadici, come il più inamidato cicisbeo del settecento. Infatti è da stupire; ma cominciava, ripeto, un’altra fase della sua vita, l’ultima, la più seria, la quale, naturalmente, affatto seria non poteva essere in chi non lo era mai stato. Negli anni migliori avea fuggiti sempre i salotti; invece adesso la società lo divertiva, nè sentiva punto ribrezzo a porsi la maschera dell’etichetta. Uomo originale sempre, volea finire dove gli altri solitamente cominciano: ecco tutto.
In questo frattempo l’Ancillo, non vedendolo più capitare a Venezia, nè avendo da molto tempo notizie di lui, diffuse in città la voce della sua morte, e un tal Mantovani, avvocato di Bertiolo, il quale, in mancanza di cause, coltivava più o meno bene i fiori di Pindo, mandò una dopo l’altra a certo Martelli, suo amico, due epistole intorno alla creduta morte del poeta, attribuendone la cagione ad uno svenimento prodotto dall’elixir Le Roy. Nella prima mandava al diavolo chi gli avea data l’infausta notizia, e nella seconda cercava il poeta all’inferno. Ma un bel giorno lo incontrò in carne ed ossa a Venezia, reduce da Bologna, e allora schiccherò una terza epistola, rallegrandosi che non fosse morto. Questo curioso episodio ridestò nel Buratti l’assopito estro satirico, e risolse di rispondere al Mantovani con tre lettere in versi.
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