In un batter d’occhio scrisse la prima, accompagnandola con una nota, che può dirsi un programma delle altre due «Intanto eco la prima» - dichiarava - «ne la qual çerco de pagarlo (il Mantovani) de una egual monea, co poche otave de sarcasmo su la realtà del so merito. Vien dopo una stafilada ai mediçi, e un elogio a Le Roa (Le Roy). Ne la seconda me propono de cantar la scena comica del mio svanimento; e ne la terza una ramanzina a Mantovani, per aver çercà nel logo de perdizion un omo de la mia sorte. E quà me vegnarà naturalmente sul brazzoler(154) un elogio a la satira, e un’apologia al mio genere.» Oh peccato, che la morte, inesorabile Dea, abbia troncata quest’opera! A noi non rimane che la prima lettera.(155)
Il poeta continuò a Venezia la vita di società iniziata a Bologna, e così ebbe campo di rifare amicizie perdute, e di trovarsi con gente che non vedeva da un secolo. Ritrovò, per esempio, il nobile uomo Domenico Vendramin, proprietario del teatro San Luca, amabile ed istruito, e citato per i suoi viaggi e per l’eleganza del vestire; rivide il patrizio Giambattista Foscolo, il quale in sua vita non avea studiato che Dante, lo sapeva a memoria, parlava sempre di Dante, e con Dante rompeva le tasche a tutto il mondo; incontrò il generale Mengaldo, avanzo di Mosca, poeta, nuotatore, e amico di Byron; e il bellunese Pagani-Cesa, poeta anche lui, conte senza blasone, come ce ne son tanti, impetuoso, irascibile, e per giunta bestemmiatore. Una sera dalla contessa Polcastro il Palfy, governatore di Venezia, in un momento d’entusiasmo, prese da un corbellino un cantuccio, che i veneziani chiamano baìcolo, e sfidò il Buratti a cantarlo.
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