Tutto è floscio e barocco,
Il fior dell’arte, il fior dei sentimenti,
Perchè reclina a terra lo sciroccoAnime e monumenti.(162)
Altro non si vuol veder nel Buratti che un poeta bordelliere, un demonio tentatore dei ragazzi e delle fanciulle.
Anche lui vivo, i suoi versi furono tollerati appena fra un bicchiere e l’altro, specialmente al caffè, per condire la maldicenza figlia dell’ozio. A pochi, a pochissimi inascoltati o derisi, passò per il capo l’idea di considerarlo qualche cosa più di un poeta da caffè o da brigata; e se mai qualcuno lo prese sul serio, fu per battezzarlo, come la I. R. Polizia, un infame libellista. È una vergogna, ormai ridotta a sistema, che i veneziani non debbano avere una lode o una parola giusta per un loro concittadino, ma debba venir dal di fuori. Fu un critico milanese che trovò in certe liriche del Buratti la maestà di Pindaro associata mirabilmente ai voli d’Orazio, e alla grazia di Anacreonte; fu il primo periodico letterario italiano di quel tempo, l’Antologia del Viessieux che meglio comprese e giudicò il Buratti nel suo vero lato d’artista. «Gli scritti suoi» - diceva - «ferivano il vizio in qualunque forma si presentasse; ferivano il delitto, fosse anche tollerato, e anche protetto dalla forza pubblica; ferivano l’ipocrisia, per quanto andassero rispettate le vesti con cui si copriva; ferivano la mediocrità prosuntuosa; la finta sapienza; il folle orgoglio della nascita; il fastidio insolente della ricchezza, e tutte insomma le basse, e dannose, e ridicole passioni degli uomini.
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