Ed in altro luogo:
Così nel fango che ti lorda i piedi,
Anzichè sollevandolo riporloNella tua penna, e sull’eterne pagine
Della veneta tua decima Musa
Coi già noti Triumviri e Patrizj,
Col pazzo Conte, e colla rea di Giuda,
Pigmeo da scherno presentarlo al mondo.
VIII. Epistola. - L’autore continua a trattare lo stesso soggetto giustificandosi verso Buratti; ma sebbene quest’Epistola sia un po’ più mite della precedente, presenta nondimeno dei tratti rimarchevoli, particolarmente alla fine, in questi due versi
. . . . . . Canta Buratti,
Che in quanto a me fino all’estremo giornoPorterai sani gli ossi e intero il muso.
IX. Epistola. - Elogi studiati all’amico Buratti. Parla l’autore del greco Nicolò Streffi, nato a Venezia per aver presa in moglie soltanto per interesse una certa donna inglese, che di lui invaghitasi, lo fece ricco, e poi lo abbandonò.
Millanta l’autore le magnifiche relazioni del Greco, e la pittura certamente ha del satirico, specialmente quando dice:
Dove miglior tra’ pubblici convegniBevi il legume amaro, che da Moca
Popolata di navi a noi veleggia,
Quivi Streffi vedrai, onniveggenteTemuta Deità, far di sè punto
A gran cerchio di Pari e di non Pari.
Giustifica una certa espressione in una sua lettera che ferì l’amor proprio dello Streffi, e progredendo nelle lodi, chiude l’Epistola con questi esaltati due versi:
E dalla Grecia sua porsi sul capoMiglior Coburgo la regal corona.
La stampa dell’Epistola potrebbe risvegliare commenti poco dicevoli, e soggetto forse di querela somministrare allo Streffi, se per reale insulto od offesa prende la poetica diceria.
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