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      Si accettava il principio fondamentale dell’Associazione di lavoratori fondata a Londra nel settembre 1864, e cioè che “la dipendenza economica dei lavoratori dai possessori delle materie prime e degli strumenti di lavoro è la causa prima della servitù in tutte le sue forme, politica, morale e materiale”; e perciò si riteneva necessario ed urgente abolire la proprietà privata fondiaria e capitalistica mediante l’espropriazione senza indennità della classe borghese fatta direttamente dalla massa sfruttata e soggetta. Si dichiarava il lavoro dovere sociale per tutti, e quindi si considerava la condizione di lavoratore superiore moralmente a qualunque altra posizione sociale, anzi la sola compatibile con una morale veramente umana, e molti internazionalisti provenienti dalla classe borghese, per essere coerenti colle loro idee e meglio immedesimarsi col popolo, si mettevano ad apprendere un mestiere manuale. Si vedeva nella classe operaia, nel proletariato dell’industria e dell’agricoltura, il grande fattore della trasformazione sociale e la garanzia ch’essa si sarebbe fatta veramente a vantaggio di tutti e non avrebbe dato origine ad una nuova classe privilegiata.
      Ma però l’Internazionale non fu mai in Italia propriamente una organizzazione di classe; ed in essa sugl’interessi contingenti della classe operaia prevaleva sempre l’ideale della rivoluzione come fatto che doveva iniziare una nuova civiltà per l’elevazione morale ed il vantaggio materiale di tutta quanta l’umanità. Nell’Internazionale in Italia, e del resto era così un po’ dappertutto, aveva diritto di cittadinanza chiunque ne accettava i principi, da qualunque classe provenisse.


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Rivoluzione e lotta quotidiana
di Errico Malatesta
pagine 338

   





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