L’espropriazione per mezzo della rivoluzione, si andava ripetendo, è l’unico mezzo per emanciparsi: il suffragio universale, la repubblica e tutte quante le riforme politiche lasciano il tempo che trovano e non sono che tranelli tesi all’ingenuità popolare. Però, s’insinuava dolcemente, qualche bene se ne può cavare: profittiamo di tutto, serviamoci come armi delle concessioni che possiamo strappare al nemico, allarghiamo il nostro campo d’azione, cessiamo dal roderci nella nostra impotenza, siamo pratici. E tosto si mise avanti il progetto di andare all’urna, scopo a cui tendeva ed in cui si riduceva tutto quel preteso allargamento di tattica. Ma siccome non s’osava ancora rinnegare tutto il detto sulla inutilità della lotta elettorale e sull’azione corruttrice dell’ambiente parlamentare, si disse che bisognava votare semplicemente per contarsi, quasi che fosse necessario andare all’urna e farsi contare dal nemico per giudicare dei progressi del partito. E per affettare scrupolosità si parlò di votare un bollettino in bianco, o per dei morti o per degli ineleggibili. Poi, senza aver l’aria di nulla, i morti diventarono vivi e gl’ineleggibili si trasformarono in persone che al parlamento potevano e volevano andarci e restarci. Ma non si osava ancora confessarlo: si trattava sempre di candidature di protesta: gli eletti non entrerebbero in parlamento, rifiuterebbero il giuramento là dove era richiesto, o c’entrerebbero per sputare in faccia alla borghesia l’infamia sua, e farsi scacciare come nemico che non transige.
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