Naturalmente per questo è necessario che i mezzi di produzione (terra, materie prime macchine, ecc.) fossero diventate proprietà collettiva dei sindacati, comunque federati tra loro.
Non è qui il luogo di discutere questo programma; ma è certo che per attuarlo bisognerebbe prima espropriare i detentori della ricchezza sociale, e siccome essi sono difesi dalla forza armata dello Stato, bisognerà vincere questa forza. E perciò i sindacalisti quantunque in teoria amino dire che il sindacalismo basta a sè stesso, debbono poi nella pratica, o pensare ad impadronirsi dello Stato, col voto o con la violenza, e diventano socialisti, o pensare a distruggerlo e diventano anarchici.
Questa loro inconsistenza programmatica si rispecchia nella storia delle organizzazioni operaie a tendenza sindacalista: presto o tardi si presentano le circostanze in cui dal terreno puramente sindacale bisognò passare alla lotta politica propriamente detta, ed allora viene fuori la divergenza e l’incompatibilità tra i riformisti ed i rivoluzionari, i parlamentaristi e gli antiparlamentaristi, i socialisti e gli anarchici, che si trovavano riuniti sotto il mantello di una mentita neutralità sindacale. E allora cominciano le lotte intestine e le scissioni. Intanto, finchè l’equivoco dura, si fa in quelle organizzazioni opera d’azione diretta, si lascia libertà di propaganda alle correnti più avanzate e si abituano le masse ad una fierezza e ad una volontà di lotta che è ottimo tirocinio per preparare alla rivoluzione.
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