Ma abbiamo sempre discusso, e spesso dissentito, sui modi come l’azione anarchica doveva esplicarsi nei rapporti coll’organizzazione dei lavoratori.
Bisognava entrare nei sindacati, o restarne fuori, pur prendendo parte a tutte le agitazioni e cercare di dar loro il carattere più radicale possibile e mostrarsi primi nell’azione e nei pericoli?
E soprattutto, se dentro dei sindacati, bisognava o no assumere cariche direttive e quindi prestarsi a quelle transazioni, quei compromessi, quegli accomodamenti, a quei rapporti con le autorità e coi padroni, a cui debbono adattarsi, per volere degli stessi lavoratori e per il loro interesse immediato, nelle lotte quotidiane quando non si tratta di fare la rivoluzione, ma di ottenere dei miglioramenti o difendere quelli già conseguiti?
Nei due anni che seguirono la pace e fino alla vigilia del trionfo della reazione per opera del fascismo noi ci trovammo in una singolare situazione.
La rivoluzione sembrava imminente, e vi erano infatti tutte le condizioni materiali e spirituali perchè essa fosse possibile e necessaria.
Ma noi anarchici mancavamo di gran lunga delle forze occorrenti per fare la rivoluzione con metodi e uomini esclusivamente nostri: avevamo bisogno delle masse, e le masse erano bensì disposte all’azione, ma non erano anarchiche. D’altronde una rivoluzione fatta senza il concorso delle masse, anche se fosse stata possibile, non avrebbe potuto metter capo che ad una nuova dominazione, la quale anche se esercitata da anarchici sarebbe sempre stata la negazione dell’anarchismo, avrebbe corrotto i nuovi dominatori e sarebbe finita colla restaurazione dell’ordine statale e capitalistico.
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