La sua aveva tutta quanta l'ingenua bellezza dell'innocenza.
Lieto quasi sempre e di temperata mente gioviale come per tranquilla e secura coscienza, e nondimeno velati sovente gli occhi d'una lieve mestizia, come se l'ombra dell'avvenire e della morte precoce si protendesse, ignota a lui stesso, sull'anima; tendente per natura di poeta a non so quale languore e delicatezza femminile di riposo, ma contrastato in quella tendenza da una irrequietezza fisica assai frequente, figlia di mobilità estrema di sensazioni e dell'eccitamento nervoso ch'ebbe gran parte nella sua morte; d'indole amorosamente arrendevole e beata di potere abbandonarsi a fiducia, pari a quella del fanciullo nella carezza materna, in qualcuno ch'egli amasse, pur fermissima in tutto ciò che toccasse la fede abbracciata; tenero di fiori e profumi come una donna; bello e non curante della persona; tale io lo conobbi dopo ch'ei s'era da oltre un anno affratellato meco per lettere e unità di lavoro, la prima volta nel 1848 in Milano. E ci amammo subito. Era impossibile vederlo e non amarlo. Giovine allora, s' io non erro, di ventidue anni(20), egli accoppiava i due estremi, sí rari a trovarsi uniti, che Byron prediligeva, dolcezza quasi fanciullesca ed energia di leone da rivelarsi (e la rivelò) in circostanze supreme. V'erano ore nelle quali lo avresti detto Stenio, il poeta della Lelia(21), nato a vivere di melodie di lira e immagini di bellezza; ed io lo chiamava talora con quel nome per farlo sorridere; ma un momento d'ispirazione, un vaticinio di patria, di unità futura, di gloria italiana, una parola eloquente di virtù severa e di sacrificio, gli faceva splender negli occhi la fiamma dei forti pensieri, e allora lo avresti detto nato soltanto a trattar la spada.
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Milano Byron Stenio Lelia
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