Permettetemi adunque che io pensi per pochi istanti a voce alta ciò che pensate voi tutti. Cento anni silenziosi passarono sul fatto che oggi noi salutiamo. E di vero, chi avrebbe potuto parlarne? o chi, potendo, lo avrebbe voluto? Ma l'anno scorso i popoli della Penisola si agitarono, e in quel giorno arsero subitamente gli Apennini. I potenti d'Europa si guardarono, come le sentinelle poste al sepolcro del Cristo, quando ne mirarono rovesciato il coperchio, e si avvidero di non aver vigilato sovra un cadavere. Thiers diceva in tale occasione alle Camere Francesi: "Sapete voi che ciò significhi? Ciò significa che in quel paese vi è la speranza, e chi spera è vivo". Ad alcuni sembrerà una molto facile scoperta, questa; che cioè noi vivevamo. Ma in quei tempi, per molti, ciò era ancora una cosa almeno molto dubbia.
L'Italia aveva coperta la sua face; poi, giunta alla faccia del nemico, rotto il vaso come Gedeone, gli aveva sporta la fiamma sugli occhi, abbacinandolo. Austria si avanzò sino a Ferrara; poi, ad un tratto, come disperata, si arrestò. E per verità, che le restava a tentare? Se un popolo tagliato in sette brani non è ancor morto, ciò significa che l'ucciderlo non è dato a forza umana.
Non crederete, spero, che io faccia risultare tutti questi fatti dalla illuminazione dell'anno scorso: ma s'ella non li produceva, li esprimeva. Una nazione che festeggia una insurrezione, dice che non è schiava. Una nazione che osa leggere ad alta voce all'Europa questa pagina della sua storia, dice che ha irrevocabilmente deciso di esser grande.
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