Il loro isolamento, e, passando dalla pratica alla teoria, l'essere state piuttosto rivoluzioni d'interessi parziali, che di principii generali.
Oh, se l'Ungheria avesse pochi mesi fa compreso che una sola è la causa dei popoli, sacra come il progresso, come la legge di Dio, che si va rivelando sovra la terra, che quella bandiera s'innalzi dovunque; che ad ognuno, ad ogni individuo come ad ogni nazione, corre debito di mettersi in battaglia sotto di lei, perché il combattere per la giustizia contro la ingiustizia, per la verità contro l'errore, è agli uomini tutti un dovere, anzi l'unico dovere sopra la terra; ora già l'Ungheria, la Germania, l'Italia, si stringerebbero la mano fraterna, consacrata dalla vittoria e dalla libertà. Ma invece, gli uomini pratici dell'Ungheria, che cosa videro nella guerra italiana? Un'occasione di vendere il loro soccorso all'Austria, ricevendone in compenso "concessioni" col bollo dell'aquila a due becchi. Se essi avessero combattuto pel principio della nazionalità, avrebbero compreso che il trionfo di questo principio in Italia era un trionfo per quanti l'invocarono in Europa. Ma essi erano uomini pratici, non erano gli apostoli armati d'un'idea; ma si agitavano, perché stavano male, e voleano star meglio. Del resto, guardavano la questione Italiana come i nostri uomini pratici guardano ora la questione Ungherese. "L'Austria, è vero, sta per cadere", dicea Ricotti alla Camera, nella tornata del 19 "ma il suo esercito è intero ancora; se noi attendiamo ancora pochi giorni, noi troveremo l'Austria spezzata, e disunito il suo esercito".
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