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      Chi fossero questi strani questuanti, mia madre non lo sapeva; ma i vassoi, soggiungeva ella, si colmavano in un batter d'occhio. In un giorno ancor piú triste del 1833, Jacopo Ruffini fu rinvenuto svenato in carcere, forse da sé stesso, per risparmiare agli occhi materni la passione del patibolo; forse dai suoi carnefici, diceva mia madre, per timore dell'infamia. Ci parlava di Giuseppe Mazzini, di Santorre Santarosa, dei Carbonari, della Giovine Italia, e della patria nostra, che gli stranieri chiamavano la terra dei morti! Io vi affermo sul mio onore che dalle labbra di lei ho appreso ad amare il nome d'Italia, come appresi dal carattere austero ed incorruttibile di mio padre la religione del dovere. Poveri miei parenti! essi non prevedevano allora che questi due grandi affetti sarebbero stati il drappo funebre del loro Goffredo!
      Quei tempi sono oggi molto lontani da noi: le sante battaglie furono combattute e vinte: ogni angolo della penisola è stato ribenedetto dalla parola di un apostolo, o dal sangue di un valoroso. L'Italia non è piú una vana espressione; il suo popolo ormai è fatto arbitro dei proprii destini. I nostri padri, i nostri fratelli hanno vissuto per noi e non per loro; essi sono morti, o di ferro o di patimenti, nelle terribili ansie di una lotta di quarant'anni; ma l'Italia, oltreché libera, è diventata anche ricca. Ogni sua valle è solcata da una ferrovia; le navi e le merci affluiscono ne' suoi porti; le sue città si sono abbellite di opere maravigliose; le arti, le industrie, le manifatture nazionali cominciano a destare la gelosia degli stranieri.


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Scritti editi ed inediti
di Goffredo Mameli
Tipogr. Istituto Sordomuti
1902 pagine 446

   





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