All'incontro di Tiberio Cesare si narra, che non si servì mai dell'idioma greco, tuttochè bene il possedesse, ad oggetto in esso di non errare. E di Caio Mario asserisce Valerio Massimo, che schivò l'imparare la greca, per non divenire, coll'applicazione ad una lingua straniera, servo fuggitivo della sua favella natia. Non sarà egli adunque il viver nostro pieno di vergognoso timore, se nell'usare l'altrui idioma paventeremo continuo d'incorrere in alcun fallo; e parlando la lingua nativa, in cui ben riescono talvolta la plebe, i villani medesimi, e chi ci serve, sapremo per lo verace testimonio della nostra cognizione, di errare a ogni parola, come quegli, i quali, sordi agl'inviti della natura, e ricusanti i favori del cielo, che qui collocandoci, più strettamente alla cultura del favellar ci obbligava, non abbiamo voluto applicarvi? Ma dove, dove m'inoltro io? quasi non veggia a chi io favello, o non mi sovvenga di ciò che poc'anzi mi proposi di dire?
Tuttavolta, per discreder me stesso, lasciate, uditori gentilissimi, ch'io dica. Gode ora ognun di noi, ed esulta in udire, qual gioconda novella, che per opera d'uomini dell'antichità studiosissimi, vi sia una volta chi giunto è a leggere l'antica etrusca favella; nè vi ha di noi chi non sia vago, per quanto l'oblivione di ben venti secoli permette, di gustare alcunchè di quella lingua, lingua ignota, lingua antica, lingua oscurissima. E della nostra poi sopra tutte l'italiche bellissima, e di tutte quelle eccelse prerogative dotata, che ognuno conosce e confessa, potremo mostrarci indifferenti, alieni, inimici?
| |
Tiberio Cesare Caio Mario Valerio Massimo
|